Robe di capriccio

Quando aveva il sivo, mio nonno scherzava con questa frase sul tempo passato in cui si concedeva viaggi, aragoste, casette per tutta la famiglia allargata in cui trascorrere le estati, etc. Era pure una frase simpatica per parlare delle primizie che allora si potevano comprare e per ricordare il passato, sempre migliore del presente in una certa cultura ed in certi anni, qui al sud.

Mio nonno è del 1929 e ha quasi 94 anni. Come spesso ci capita quando perdiamo noi stessi, anche quella frase si è persa nel tempo e nei meandri della demenza senile e dei suoi prodromi, in quell’assenza di leggerezza e in quella paranoia neurologica – ma anche psico-sociale, dati i mondi che viviamo e le storie di venialità familiare che sempre più spesso si diramano nelle nostre vite-millennials -, per cui si crede di abitare in Poverinyland. Eppure, certe parole risuonano sempre in me in modo un po’ magico, come pure le scene in cui raccontava sornione di aver accolto al suo Extrabar Olympia Totò appena fuggito dal pomodori dei palermitani e un volta pure Lucky Luciano (che per poco non sparava a un suo dipendente); oppure quei momenti casalinghi in cui, dopo aver finto di disertare il pranzo comune, tirava fuori da un angolo dei suoi due frigoriferi un pezzo privato di bottarga buona da grattuggiare sulla pasta in bianco con l’olio: 40 grammi di pasta “al dentissima” che mangiava da solo in cucina, concludendo il lauto pasto con una “scarpetta” furiosa e lenta insieme. Mio nonno, infatti, è sempre stato un po’ burbero ed egocentrico; un “malo carattere”, insomma! Però quando parlava delle sue “Robe di capriccio”, si trasformava: sghignazzava e faceva lo show con lo stesso sivo di un bimbo giocoso che indugia nel capriccio. Per me però il top lo dava quando disegnava coi pennarelli indelebili dei grossi baffi neri sulla faccia della pro-zia Irene o le confezionava dei cappellini di giornale che le metteva in testa; lei glielo lasciava fare a causa del parkinson e dei loro storici scherzetti reciproci, anche se gli faceva le corna da lontano e lo chiamava “Saladino”; e questo almeno fino ai 95/96 anni. Ancora prima, le leggende narrano che, in uno di quei lunghi viaggi con la famiglia allargata, la zia Irene avesse il vizietto di fare ovunque la pipì e che una volta, non essendoci come, si arrampicò sul lavabo di un bagno comune, dimenticandosi, nell’atto eroico, di chiudere la porta a chiave. Lui la aprì e lei restò col “retré” di fuori davanti a vari estranei tra urla e vergogne anni ’60. La bullizzò per questo per i successivi 50 anni, fino alla fine.

Sorrido. Nei ricordi, è ancora viva la leggerezza.
A volte mi sento un Ulisse avvolto nell’etterno “nostos”. Capita quando rimpiango la condizione di bimba incosciente che non si deve occupare di orari e scadenze o del forno che ha qualche problema, ovvio. Capita quando sorrido al nonno, che prima mai mi avrebbe dato un abbraccio o chiesto aiuto, né si sarebbe concesso di delirare della qualunque e addirittura senza senso; in questi casi capita, ovvio. Ma capita anche quando guardo le vie alienate, i ritmi disarmonici, le spigolosità dei miei coinquilini del mondo e come esse diventano e sono anche le mie.
Sì, confesso che, a tratti, il mio sguardo è depresso, che mi mancano le “robe di capriccio” semplici, non quelle favolistiche tipo oro commestibile nella Veuche Clicquot Ponsardin o del capodanno con proposta di matrimonio diamantogena sulla Tour Eiffel. Mi mancano quelle delle case piene di bimbini urlanti di gioia perché lo zio gioca con loro a “Bru” (versione più terrifica dell’acchiapperello, dato che lo zio si fingeva un mostro divorante). Quelle delle vacanze condivise con la famiglia allargata e delle cene semplici con gli amici uno e due, perché si sapeva che, nonostante gli impegni, si dovevano coltivare i rapporti. O perché si voleva, nonostante gli impegni, coltivare i rapporti (tipo coi signori d’Amato o coi Chiaretto o con gli Oddo ogni estate), passare i Natali tutti insieme e festeggiare i compleanni in gruppo. Quelle in cui ci sono nonne e mamme e zii felici di occuparsi dei picciriddi che sono i figli un po’ di tutti e quelle in cui l’odore dell’olio di oliva è accessibile e non devi pensare con rabbia di aprire un mutuo per friggere 3 melanzane e allestire una tavola improvvisata per 13 (e alla fine non lo fai mai e per evitare imbarazzi manco ti fai sentire più).

Bei tempi, comunque! Oggi alcune di queste cose mi sembrano impossibili. Cosa è cambiato? Il nonno ed io di certo. Ed anche la cultura che ci circonda.
I ricordi, in ogni caso, sono importanti, ma non per languire in essi. Sicuramente li custodisco, a volte con qualche lacrima, perché no… Siamo pur sempre “nani sulle spalle di giganti”, di una certa storia grande che ci ha creato.
Tuttavia, provo ad andare oltre e mi chiedo cosa siano oggi le MIE “robe di capriccio”. Nel 2023 saranno 40… un regalo importante da ricordare (quando mi sentirò male perché sarà vero che ho 40’anni!) è che per fortuna lo so; lo dicevo poco fa ad Andrea: cose tipo la gioia di essere rimasta in pigiama fino alle 13, di aver cucinato, di accarezzare la gatta distesa sul mio stomaco mentre scrivo, di scegliere gli spettacoli che voglio vedere a teatro, di viaggi che voglio vivere e di amici che voglio vedere, ma anche di sabati a casa perché ho imparato a scegliere, a sentirmi e a dire sia NO, che SI’. E’ la gioia di trovare il mio limite e di scegliere serenamente di guadagnare di meno ma vivere di più, di riuscire a recuperare la bimba giocosa che è in me, tentata, per i precedenti 38 anni, dalla performatività, da certi ruoli & fantasmi sociali e familiari che oggi so non essere né felici, né autentici. Giacché l’autenticità è una conquista e non sempre è facile.
Ci hanno insegnato – poiché nulla e nessuno è veramente perfetto – ad essere in un certo modo, ad amare quel qualcosa che abbiamo già vissuto, a idealizzarlo. Veniamo dai diktat dell’epoca vittoriana della repressione per il buon costume, poi diventata quella del boom e del non limite e oggi resa quella delle pseudo-crisi guerrafondaie ad ogni costo. “Ordini” più o meno suadenti a loro modo.
Mio nonno li ha vissuti tutti e io tramite lui. Non so se lui sapesse chi era, se ha fatto delle vere scelte. So che l’ho visto lavorare molto e troppo, fare dei figli infelici e lui stesso, soprattutto, non l’ho mai visto molto felice, se non quando entrava in contatto con le sue “robe di capriccio”, col suo spirito bambino poco imbrigliato dai doveri calvinisti e dai guadagni, tipo quando ci portava in gruppo a Gardaland e quando disegnava i baffi alla pro-zia.

Abbiamo tutti le malinconie, i nostoi, le tradizioni come le martorane e le moffolette dei morti… Sì. Ma c’è una differenza tra cosa è passato e cosa è se stessi ed è possibile comprendere chi siamo in mezzo all’ingombro mondiale e ritagliarci angoli e fette sempre più grandi di capriccetti sacri tutti nostri, autentici, belli. Di senso della vita, insomma… Questo è quello che mi ha insegnato mio nonno, forse più dell’amore per la cucina (lui era un vero chef!) e dell’odio per il maschilismo.
Quindi grazie a lui per questo dono e a me per cercare di renderlo davvero mio e di tenerlo a mente ogni giorno (circa).

(…Condivido il dono qui, come avrebbe fatto lui con una minima parte della sua super-bottarga!)

3 thoughts on “Robe di capriccio

  1. Io e i miei nipoti (5 e 3 anni) giochiamo a “il mostro dai piedi puzzolenti” (i mostri sono loro). Sono così coinvolti che quando c’è la videochiamata della buona notte avverto con esibita ripugnanza lo sconvolgente fetore dei loro piedini che sbucano dalla coperta che li avvolge per sbilanciarsi verso lo schermo che ci separa.

  2. Bei ricordi vividi. La zia Irene che fa le corna indossando il cappellino giornale, Totuccio, Toti che tirava fuori dalla credenza chiusa a chiave la “roba buona”… Grazie per questa fotografia!

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