Oggi ho voglia di scrivere di Accoglienza.
Anche se è difficile farlo senza pensare a ciò che accade nell’attualità sociale. Mi sarebbe più facile parlare del lavoro di accoglienza che si fa in terapia (accoglienza dell’Altro, di sé, delle parti nuove ed anche di quelle sporche…) o spoilerare esperienze personali, tipo qualcuna delle volte in cui non mi sono sentita accolta anche da persone cui voglio bene. Ma forse andrei lontano e o molti “non mi guarderebbero più in faccia”, come diciamo dalle mie parti! Anche accogliere un parere scomodo, forti emozioni (e dove ti toccano) o la vergogna di aver messo a disagio o in ridicolo qualcuno, infatti, non è facile né socialmente desiderabile e probabilmente genererebbe un rifiuto: rimandateli a casa vostra, questi pareri divergenti o questi individui antipatici! E pure gli iper-sensibili che mi turbano coi loro discorsi o che addirittura si sentono a disagio se non vengono accolti!
…Diktat dal mondo della decapitazione cinica della complessità.
…Diktat dal mondo degli impulsi eliminazionisti della diversità.
…Diktat dal mondo dei genocidi invisibili che riducono il diverso a (s)oggetto irrilevante.
E anche se possiamo riempirci tutti la bocca di frasi da seminario come “l’onnipresente parzialità del nostro sguardo” o “ricordiamoci che l’Umano non è definibile una volta per tutte”… Invero, non possiamo far finta di non essere feritori o feriti e di vivere in una situazione perennemente bellica in cui il punto di vista Altro è potenzialmente minaccioso e quindi no, non va fatto spazio; semmai, l’altro va messo in quarantena, circoscritto, accerchiato, lasciato solo in mezzo al mare, al confino, incarcerato, ammazzato, giacché non c’è più spazio se non per il proprio punto di vista, per la propria parola, per il proprio modo di fare e di sentire e di concepire.
Sarebbe semplice fare alcuni esempi, ma – dicevo prima – anche la mia mente è in quarantena. Giusto? Sbagliato? Perchè? Ho paura? Di essere ferita? Di essere il feritore? O entrambi? E chi sono io per dirlo? Sicuramente è uno dei miei punti ciechi, ci guardo dentro e mi ritrovo bambina, nel passato. Esco così dall’isolamento: uso l’incontro poco accogliente con l’altro, uso il disagio e il fastidio che provo come antidoto. Ma non è facile. Né vedersi, né vederli. CHI? Gli Altri. Così, ogni tanto mi accontento del mio punto di vista, per qualcuno favolistico, per qualcun altro ideologico. Giusto? Sbagliato? E chi sono io per dirlo? O chi sono gli altri per dirlo?
Ho terminato il mio ultimo viaggio dentro uno dei miei punti ciechi, mentre risuonavo con la voglia di accogliere nella mia terra dei colleghi del nord da cui mi sono a mia volta sentita molto accolta e in diverse occasioni. E mentre risuonavo con questa idea di accoglienza, sfatta e sorridente per il lungo viaggio ancora in corso, mi veniva rimandato vagamente che il mio modo di accogliere, il mio desiderio, la mia educazione sul concetto di accoglienza, sembrava eccessivo, melenso, inappropriato. Intanto provavo a giustificarmi e vedevo scorrere nella mia mente il desiderio di far conoscere a quei simpatici colleghi del nord lo sfincione, i dolcetti di Erice, casa mia, i panorami, i vicoli arabi, l’interno e l’esterno del teatro Massimo, il mare di Magaggiari, la Vucciria o chissaché… Forse è troppo? E chi sono io per dirlo? O chi sono gli altri per dirlo?
E siccome “il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza” (J. Borges), sperando di essere intelligente, mi sono chiesta perché sembrassi “così troppo desiderosa”. Dovere? Piacere? Risonanza con la mia antica solitudine e desiderio di colmarla per qualche giorno? Entusiasmo nel mostrare la mia terra? Viso accogliente di mia nonna che mi dice di invitare tutti a casa? Viso triste di mia madre che non vuole mai fare un tubo? Desiderio di ricambiare quanto ricevuto? Tutto e niente e forse altro. Ci ho provato, ma il risultato è stato comunque che mi sono sentita rifiutata, criticata a priori, isolata poiché minacciosa e allora mi sono inspidita, irrigidita, con gli aculei tesi e silenziosi; mi sono incappucciata e ho taciuto, felice di aver un posto di ritorno isolato dalla mia compagnia. Questo è un modo in cui mi sento spesso quando propongo incontri, iniziative, idee, aperitivi, lavori di gruppo o gruppi di lavoro, entusiasmi. Giusto? Sbagliato? E chi sono io per dirlo? O chi sono gli altri per dirlo? Meglio evitare questa strada bellica, di “me contro te”. Meglio chiedermi che posso farmene, prima di diventare un porcospino e di irrigidirmi anch’io nel rifiuto di parti degli Altri e di me. Rifiuto produce rifiuto. Chiusura produce chiusura, rancore, solitudine. Non collaborazione…
Un parere scomodo o certe forti emozioni (e dove ti toccano) o anche la vergogna di aver messo a disagio o in ridicolo qualcuno, infatti, non è facile da accogliere, né socialmente desiderabile, e probabilmente genererebbe un rifiuto: compreso il mio.
Questo è il mondo della decapitazione cinica della complessità. Degli impulsi eliminazionisti della diversità. Dei genocidi invisibili che riducono il diverso a (s)oggetto invisibile. Capita anche a me, soprattutto in risposta a questo tipo di sottili “espulsioni”…
…Allora servono antidoti… Così ho pensato a Superga. A quella mattina in cui ho scattato la foto mentale di Superga sulla collina, in macchina con due ragazzi appena ventenni, sentendomi quasi-quarantenne e un po’ anche con l’entusiasmo di una ventenne. Il ragazzo guidava; non lo avevo mai visto, ma non stavo a disagio e lui era dolce, con i capelli lunghi e soffici allo sguardo e le labbra grandi; un sorrido morbido in mezzo a loro. Ci è venuto a prendere in aeroporto perché siamo ospiti di sua mamma; insieme a lei, portare avanti una iniziativa di volontariato psico-sociale in provincia di Torino che in primavera porteremo a Palermo. Arriviamo in 5 dal sud e non entriamo in una macchina, quindi ci è venuto a prendere anche lui con la sua auto per creare qualche posto in più. Avremmo potuto prendere il treno o un taxi, ma no, loro ci hanno accolto così: lo hanno proprio voluto! Mi sono sentita grata. Soprattutto a lui. Dico – scherzando – che è un eroe, perché sono abituata ai rifiuti (questa è la mia storia antica), conosco le chiusure, non è scontato per me essere accolta, sentire la donatività. Semmai, è più facile la diffidenza, la scortesia, la paura, il “no”. Quindi oggi mi affascinano l’accoglienza, la gratuità, i doni. Mi piace molto anche fare doni. E allora, per me è un eroe e mi sento in pace e accolta, stimo quel ragazzo sorridente di sabato mattina e sono tanto rapita dal verde del nord che mi scivolano le cose dalle mani senza neanche accorgermene. Guardo Superga… E lui a un certo punto dice semplicemente che per arrivare a casa loro “basta seguire Superga”, dietro la collina. Clic. Scatto la foto. Voglio ricordare questa frase e usarla come antidoto al “Difficile, tutto difficile” (sottotesto: “meglio andare oltre, non accogliere o farlo alla buona…”). Perché al contempo è anche così dolce e facile, a volerlo: per accogliere, “basta seguire Superga!”.