C’era una volta un albero d’arance infecondo.
C’è oggi lo stesso albero d’arance carico di fruttini in erba.
Tra l’uno e l’altro, è passato solo un anno; c’è da essere curiosi e chiedersi cosa sia accaduto.
- L’albero, ultra-decennale circa, è figlio unico di madre vedova. Ovvero, nel mio giardinetto a L, al massimo è possibile trovare un esemplare sparuto di alcune specie autoctone. E lui era ed è, infatti, l’unico arancio. Nessuna metà della mela (o dell’agrume)… Soffriva forse di solitudine? Questa una ipotesi emozionale antropomorfa, inopportuna – dicono – per le rutacee.
- Oppure i topi? Avete mai sentito di quei topacci di campagna che, affamati e arraggiati, mozzicano perfino le cortecce dei poveri alberi per procacciarsi un minimo di nutrimento? Corteccia che quindi lascia scoperto l’albero, portandolo ad un inesorabile e crudele ammaloramento… che potere che hanno sti topi famelici: mors tua, vita mea! “Sterminateli!!!”, disse il vicino. Ecco un’altra ipotesi e la rispettiva drastica risoluzione del problema. …Ma, invero, qui NON si trattava di esseri umani e inoltre il tronco era sano. Insomma, i miei topi di campagna erano e sono evidentemente pasciuti, comunitari e innoccienti.
- Il tronco aveva però qualche macchietta: il povero arancio poteva essere ammorbato? Che esistesse un qualche Covid arboricolo? Ma diagnosi e vaccini per lui non ne avevano ancora inventati e comunque l’arancio non fu mai dichiarato preda di virus o deceduto. Su questa pista nulla di fatto.
- Magari sterilità? Serve qualche ormone o prodotto? Ma credo si tratti anche qui di un malore tutto umano, ove la diagnosi e le cure sono state inventate, seppur rischiose e costose… Invece a volte bisogna accettare di guardare altro(ve). D’altronde, dicevo, l’arancio è vivo e vegeto, ma non fruttifica; ciò, ai miei occhi, non lo rende meno bello, verde e valoroso… seppur filogeneticamente meno utile.
…Forse bisognava chiedersi meglio il motivo di cotanta aridità. Mi sono allora interrogata lì dove sono ferrata: qualsiasi cosa si debba attraversare, la chiave sta nella CURA! Ecco il mio mantra.
- Il terreno è stato effettivamente trascurato da anni di inabitabilità della location: no zappatori, no innaffiatori, no giardinieri; qualche sparuta abbeverata magari d’estate. Che fosse colpa del mio pigro pater familias? E una volta che ora la casa è “tua”, fatti inondare dal senso di responsabilità, accollati il mandato familiare, rimedia, zappa e accollati il bollettone d’acqua per rivitalizzare l’arancetto deprivato!
- Troppe erbacce? E quindi disbosca a mani nude e sotto il pico del sole estivo.
- Assenza di concime? E concimammo, con sterco e stallatico colto ad hoc in seno alle trazzere cinisare. E lo donammo a piene mani a tutti gli alberelli. Si sa, infatti, che per risolvere i problemi non si può fuggire in eterno: prima o poi devi immergere le mani nella melma (e nella merda!).
Ma cotanto amore non fu ancora sufficiente. Ancora per un altro anno nisba! La cura, in effetti, è una roba lunga e impegnativa.
- Un bel giorno, come nelle favore, il mio supervisore ci aiutò casualmente a risolvere l’inghippo: “Deve entrare la luce!”, disse mostrandoci il suo florido terreno e offrendoci una pera col verme! Mancava in effetti un ultimo tassello ai nostri tentativi di defibrillazione dell’arancio: il masterchef del giardinaggio; quello a cui un giardiniero profano non pensa mai… E come potevo io, trapiantatrice provetta di talee di piante grasse e null’altro (per far vivere le quali basta comprare un terriccio ics dai cinesi, staccare una foglietta e immergergliela dentro), pensare alla potatura?
Finalmente, sulla pera + verme, ecco l’“EUREKA!” da cui ho tratto arance bio per l’autunno prossimo e un forte insegnamento esistenziale. Perché noi non avevamo guardato bene: cercavamo di curare un albero come la cultura cura gli esseri umani di oggi, ovvero aggiungendo, diagnosticando malattie, scacciando gli altri esseri autoctoni dal giardino, ricorrendo al farmaco, imponendo soluzioni trendy o preconfezionato-ideologiche. Non ci eravamo accorti di quanto il piccolo arancio fosse affogato dai suoi stessi rami, dai rami di fico e melo cotogno accanto e a destra e di fronte e dall’iris a sinistra!
“Accumulare”. “Accatastare”. “Aggiungere”. “Affastellare”. “Ammassare”. “Saturare”. “Riempire”. “Farcire”. “Stipare”. “Imbottire”. “Colmare”.
Ecco il Credo – cioè una delle ferventi preghiere – dell’Oggi, della borsa delle donne, delle menti, delle giornate neo-capitalistiche.
Ma se esiste un limite, se lo spazio vitale non comprende altre possibilità, sfidarlo toglie luce, aria e nutrimento! Bisognava al contrario FARE SPAZIO, liberare il tenero arancio dagli ingombri, separarsi dal superfluo, scegliere dove e cosa potare con perizia e nel momento dell’anno giusto. In questo modo, potranno entrare la luce, nuovi corpuscoli, nuovi insetti per i fiori, si lasceranno aperture per i frutti e, nel vuoto, potrà nascere il nuovo.
E così fu e Lux Fuit!
Dopo esserci dispiaciuti per l’assenza dei giardinieri di una volta e dopo 3 preventivi rapinosi per uno sputo di terreno, siamo giunti a fare spazio nel portafogli e nel mio giardino. Abbiamo rivitalizzato l’arancio, il mandarino e un fico semplicemente con la cura della luce, dello spazio, del concime naturale e dell’acqua. Oggi stiamo attenti che i nostri alberi vedano il cielo. Non piantiamo altri alberi da frutto, avendo chiara l’ossessione attualissima di avere di più e, in più, sempre qualcosa di nuovo e stimolante. Accontentandoci di curare e valorizzare al meglio l’esistente, abbiamo rivitalizzato un arancio pieno di pallini verdi che nutriranno l’Altro-da-sé!
Bisogna imparare ad osservare. Prendersi cura delle piante è un esercizio che può condurre a onestà di pensiero.