Un mesetto fa mi è stato proposto di partecipare ad una intervista di gruppo sui maltrattamenti degli animali. Ora: violenza e animali sono sicuramente due temi che mi stanno a cuore, molto drammaticamente attuali per altro e con cui mi ritrovo a vivere e spesso anche a lavorare in vari modi diretti e indiretti. Tuttavia, inizialmente ho detto di no. Ho detto di no perché il tema mi sembrava troppo complesso e sentivo di non avere il giusto tempo per affrontarlo.
Cosa sono infatti gli animali per ognuno di noi? Un piccolo mondo soggettivo, e fin qui tutto bene. Ma soprattutto, cosa è la violenza? Ed è una faccenda che possiamo ridurre ai gatti vessati, ai cani presi a randellate, ad Amarena uccisa per superficialità o alla capretta picchiata per sport da alcuni giovinetti simil-pariolini? Non credo e l’assonanza con Izzo & co. non mi arriva per caso.
Dopo questa prima diffidenza nell’affrontare il tema – ripeto, drammaticamente quotidiano per tutti noi “esseri della comunità terracquea” (come dice Morin) -, ho iniziato in realtà ad esserne sempre più abitata. I racconti e le immagini degli ennesimi accadimenti israelo-palestinesi sono stati la goccia (che non è solo acqua) che ha fatto traboccare il vaso e ho iniziato a riflettere, riflettere, riflettere… su cosa fosse importante lasciare passare.
Credo sia importante bypassare la tradizione lombrosiana che cerca nel cranio degli assassini la fossetta indicante la predisposizione alla violenza. E’ vero, esistono dei tratti temperamentali che predispongono alcuni individui a funzionamenti neurochimici più “proni” all’agire istintuale e al discontrollo degli impulsi; o ancora, ci sono dei disturbi acquisiti, relazionali, ad esempio dell’attaccamento, che lasciano un individuo non regolato e più reattivo di fronte alle frustrazioni. Ad esempio di quegli impulsi che le regole sociali addomesticano con buona pace della convivenza e della sicurezza condivisa. L’uomo, d’altronde, è un animale sociale dai tempi della selce e dei clan antidinosauriani, indi lungi da me non proteggere il concetto di tribù o comunità. …Ma forse qui il punto è chiederci che fine ha fatto la relativa rassicurazione che veniva dal villaggio e dai suoi rituali sociali e che cosa succede alla psiche umana in assenza di tale contenimento collettivo.
Perché possiamo, con buona pace di tutti, semplificare e individuare il “criminale nato”, ma se davvero così funzionasse, dovremmo farci prendere dall’assenza di speranza collettiva per il problema dei serial killers o dei bambini affetti dalla triade di MacDonald (che sarebbero appunto “semplicemente” degli “assassini nati”), e sentirci tutti pronti, noi e i nostri animali cari, ad esserne vittime in ogni momento.
Io – e i miei studi mi sostengono in tal senso – preferisco pensare:
1) che, come dice Konrad ragionando in termini etologici, l’aggressività non sia propria del “mostro”, ma che appartenga all’ambito fisiologico della sopravvivenza: avrebbe uno scopo adattativo, funzionale alla soddisfazione degli obiettivi primari (difendere un territorio, accedere all’accoppiamento, proteggere i propri piccoli, organizzare la scala sociale gerarchica all’interno di un gruppo, acquisire risorse o difendersi da attacchi). Anche l’origine della parola – dal latino ad + gradior, ovvero “camminare verso qualcuno/qualcosa di appetibile” con azioni che possono essere benigne (tentare di accattivarsi) od ostili (attaccare, assalire, accusare) -, aiuta a cogliere come il comportamento aggressivo implicherebbe “solo” l’ingresso nello spazio territoriale altrui e come possa essere inteso come una pulsione innata in grado di esprimere funzioni necessarie alla sopravvivenza.
2) che – ahinoi -, come scrive Fromm, nel comportamento umano, si aggiunga anche qualche altra variabile. Nel saggio Anatomia della distruttività umana (1975), sono descritte una “aggressione difensiva, “benigna”, al servizio della sopravvivenza dell’individuo e della specie” e una “aggressione “maligna”, “cioè la crudeltà e la distruttività, specifica della specie umana, e praticamente assente nella maggior parte dei mammiferi; non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, se soddisfatta, procura voluttà”.
Allora, a partire dalle tragedie che viviamo quotidianamente o indirettamente (penso anche solo a tutte le creature uccise per strada e abbandonate lì), ci tocca chiederci come mai noi uomini abbiamo questa piccola “aggiuntina” e quale sia IL SUO SENSO!
Per la sociologia, l’aggressività va vista in rapporto al tipo di esperienza, di ambiente e di sollecitazioni che l’individuo ha incontrato nella vita: in un soggetto che vive in un ambiente (familiare, di gruppo, sociale, politico,…) in cui l’aggressività non è sollecitata, sicuramente gli istinti aggressivi avranno difficoltà a prodursi; al contrario di quanto avviene in un ambiente ove si favorisce la violenza. All’interno di una determinata cultura, il modificarsi delle condizioni sociali induce infatti a cambiamenti nel comportamento aggressivo.
Introducendo il concetto di cultura come nuova pelle in grado di formare e sformare l’umano, ci tocca sostenere che l’aggressività è oggi un valore culturale in cui è l’individuo con le proprie scelte a determinare il proprio cammino. L’individuo DEVE fare questo, è chiamato a costruire un cammino di successo (o è “un fallito” per questo mondo sociale); qualsiasi ostacolo di frapponga a ciò è oggi mal tollerato – fosse Gaza con i suoi icsmila abitanti o un pugno di pari o una colonia felina -, genera frustrazione; e la mal tolleranza della frustrazione, dice Dollard, conduce sempre a qualche forma di aggressività che, in assenza di un contenitore sociale che accolga il singolo con le sue difficoltà e lo faccia sentire parte di comunità empatiche, diventa “violenza” (da vis = “forza, vigore” + ulentus = che indica eccesso: proprio di chi usa molta forza, prepotenza).
Anche al di fuori di conclamati disturbi psicopatologici e di situazioni di trascuratezza familiare, la generale difficoltà attuale a riconoscere le proprie emozioni e ad empatizzare con quelle degli altri costituisce un fattore di rischio per la messa in atto di comportamenti violenti. Come dichiarò il sindaco del comune in cui, durante una festa, fu picchiata a morte la capretta qualche tempo fa, il disagio sociale è un fenomeno che sta investendo sempre più giovani su scala nazionale e non solo. Qualcuno potrebbe rispondere similmente per gli stupri estivi di Palermo. …Risposte utili se i sindaci o i familiari le usassero NON per pulirsi pilatamente le coscienze dando la colpa al genitore o alla scuola di turno, ma per occuparsi di ciò che sta accadendo socialmente, appunto.
E, di preciso, di cosa stiamo parlando?
Alla fine, dopo Gaza, ho deciso di accettare l’intervista, perché ci tengo molto a dire, in estrema sintesi e facendomi aiutare dagli altri, ad esempio da Kaës, che le sofferenze psichiche e le violenze hanno un’origine sociale, culturale, politica ed economica. Oggi, infatti, i valori dell’empatia e dell’Altro scoloriscono di fronte ai propri bisogni, spesso intesi come bisogni di guadagno individuale e di successo (cito qui riduzionisticamente le voci di alcuni pazienti):
“Il mondo moderno e più ancora il mondo ipermoderno ci confrontano con un insieme di sconvolgimenti acuti che colpiscono la base narcisistica del nostro essere, nella misura in cui il contratto intersoggettivo ed intergenerazionale è sconvolto o addirittura distrutto; quel contratto che ci assicura, attraverso l’investimento collettivo e gruppale, del nostro posto in un insieme, e che ci obbliga a investire a nostra volta la collettività ed il gruppo per assicurarne la conservazione. […]Quando questi garanti métasociali si trasformano sotto l’effetto dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, dei conflitti sociali e dei movimenti migratori indotti da queste mutazioni, per effetto dello Spirito dei tempi e della distruttività delle guerre mondiali, le società sono confrontate a nuove gravi instabilità. Le grandi ideologie e le religioni del progresso non strutturano più le certezze, i sistemi di rappresentazione, i valori e gli orientamenti dell’azione collettiva: in queste condizioni le leggi e le proibizioni che regolano i rapporti sociali e interpersonali diventano sfumati, contraddittori, paradossali e inefficaci. Sono svalutati.[…]Insieme cause e effetti, la violenza sociale e individuale, l’esclusione, le condotte devianti, la marginalità, sono l’espressione manifesta della crisi dei garanti métasociali e, di conseguenza, dei progetti sufficientemente condivisibili per costituire il vettore di una dinamica sociale creatrice di nuovi processi di socializzazione”.
Per oggi, sperando di attivare un nuovo tipo di pensiero che sia meno “caccia alle streghe medievale”, la chiudo qui, rimandando a ulteriori approfondimenti:
“Perché la guerra?” * | Abattoir
“Perché la guerra?” E soprattutto: intanto noi che facciamo? | Abattoir