“Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”
(o “una intera tribù”).
Si avvicina l’arrivo nel mondo concreto, extra-panzino, di Noah ed io mi faccio delle domande. Tra i vari pensieri, mi torna in mente questa frase. Ma “qual è il mio villaggio?”. Me lo sono chiesto, così ho cercato su internet le origini del proverbio, trovando al loro posto immagini di villaggi turistici. Allora ho provato una fitta al petto (quel poco che me ne rimane, dato che ho una pancia che occupa il 91% del mio busto) e mi sono sentita più sola, io che detesto i villaggi turistici.
Sì, perché a me – che detesto i villaggi turistici e che non ho una famiglia di riferimento – giustamente capita, in un momento rivoluzionario come questo, di sentirmi particolarmente orfana.
Questo non avviene sempre, ma in alcuni momenti prende comunque il sopravvento quella parte di psiche che sa di NON avere ciò che potremmo chiamare “una famiglia tradizionale” cui chiedere come si sbiancano gli strofinacci o i micro-vestitini del picciriddo; la stessa parte che nota che, al giorno prima di quella cosa politico-sociale che organizziamo ciclicamente di nome “cittadinanza riflessiva” (nata proprio per ricostruire un senso di villaggio, di comunità, lì dove oggi esiste solo il pieno saturo del nulla), abbiamo 20 partecipanti: che significa? Che la comunità chiama, ma pochi rispondono?
Sono sempre stata molto sensibile a questi temi, e soprattutto adesso la domanda sul “cosa possiamo/posso fare e che futuro posso iniziare a costruire per il mio piccolo?” è particolarmente forte.
Sul momento, di fronte alle immagini di resort-e-basta e alle considerazioni di cui sopra (che sotto ne contengono altre che vi eviterò, per oggi) ho pensato all’inesistenza, nella mia vita, di “una comunità di riferimento che ti affianchi e che non ti lasci solo (orfano, appunto)”. Quel proverbio, infatti, sottolinea l’importanza della comunità e del supporto collettivo nella crescita e nell’educazione dei bambini. Crescere un bambino è un compito complesso che beneficia dell’aiuto e dell’esperienza di molte persone, non solo dei genitori! Ed io in questo credo!
“Sì, ma qual è il mio villaggio?”, continuavo a chiedermi guardando dentro e intorno allo schermo. “Io e Anto sicuramente, ma basterà?”. […] In alcuni piccoli momenti ho paura. Non credo nei legami di sangue ed ho vissuto e vivo molte bellissime amicizie para-familiari; tuttavia, la vita-2024 le rende fluttuanti. Non è una colpa di qualcuno, ma immagino la rivoluzione che mi appresto a vivere come molto complessa, così confesso che mi piacerebbe a tratti illudermi che viviamo ancora nelle case coloniche o nelle tribù in cui i bimbi chiamano “mamma” tutte le donne del villaggio e le mamme&papà biologici non si sentono in colpa se vanno a fare la doccia o l’amore, né si preoccupano troppo se i piccoli tardano perché sanno che sono con gli Altri a pascersi e crescere in altri modi.
In questo mondo in cui vivo ed in cui Noah sta per nascere, invece, le reti possono essere anche affettive sul serio, se sei fortunato, ma la qualità della vita è così orribile e stressante che faticano ad essere costanti e coerenti o oltre-wathsapp. Inoltre, i rapporti scelti – se hai buone capacità relazionali (ed io credo fino ad oggi di averle!) – restano, ma mutano alla velocità della luce e delle esigenze personali, più che della cura della collettività; non è una colpa di qualcuno, ma come non preoccuparsi, se sai di vivere nell’era dell’atomizzazione dei rapporti (siamo sempre più “atomi” e sempre meno “umani in rete”) e della polverizzazione dei garanti familiari e comunitari, cui fa da contrappeso l’implementazione schiacciante delle richieste del mondo del lavoro e dell’aumento del costo della vita?
…Mi piacerebbe vivere una condizione in cui nessuno debba vivere “da solo” ciò che può essere affrontato in squadra. Coinvolgere altre figure “per” e “con” i propri figli, non è per me delega o fuga. Spesso è premessa per un intelligente lavoro di squadra e per coltivare valori fondamentali ma in disuso come relazione ed empatia (VS retorica della famiglia tradizionale). …Non è facile creare questa squadra però, e spesso siamo abitati da un’idea di “condivisione”, che – se ti va bene – è solo un pulsante di Facebook.
Penso a Michela Murgia: si può essere sorelle, madri, figli che si scelgono? Si può costruire una famiglia senza vincoli di sangue? Per lei la risposta è sì. “La queerness familiare è ormai una realtà, e affrontarla una necessità politica”. Non è il sangue a tenere insieme, ma la qualità della relazione: “le persone, prima di tutto. Il resto sono chiacchiere”. Ed io in questo credo!
Certo: in una cultura locale in cui la tradizione conta spessissimo più della sostanza, so che anche i rapporti “tossici” ma “di sangue” vengono spesso privilegiati a relazioni nutrienti ma “solo” amicali. Tante volte mi sono vista ignorare da amiche care in difficoltà cui offrivo il mio aiuto e forse potrebbe accadere di farlo anche a me… Questo mi preoccupa, è innegabile!
Eppure vi dirò: non mi strappo i capelli, né ho avuto episodi depressivi, se non – nei momenti più duri e per la paura del cesareo e delle notti da sola in ospedale – un po’ di malinconia per la mancanza di una mamma e per la vecchiaia della mia nonna-mamma. Però, sciolti questi fisiologici sentimenti, sento che loro e non solo loro sono in me pur non concretamente e che mi danno forza in modi inimmaginabili ai più, aiutandomi a valorizzare l’esistente!
E vi dirò invero che è di questo che oggi volevo scrivere.
Perché è vero: le cose non vanno bene in termini sociali e su questo bisogna essere lucidi e disincantati per rimboccarci le maniche al meglio. Eppure, quando ho digitato quella frase sulla tribù, ero animata non solo da nostalgia, ma insieme da dolce emozione nel ricordare come io – sempre quella che detesta i villaggi turistici e le famiglie posticce, di facciata – sia stata in questi mesi circondata da un amore non tradizionale, elettivo, scelto. Ovvero dal pensiero di tutte quelle amiche e amici non di sangue che diventano familiari nella tua quotidianità per il fatto che ti pensano, ti chiedono in mezzo alle loro questioni anche se solo on line, ti spiegano a cosa serve l’ovetto, si offrono per l’ospedale, per dirti come si lava il culetto del bambino, ti fanno sorridere e incoraggiano con un disegno sulla pancia quando non ce la fai, ti aiutano a montare gli infiniti aggeggi del demonio che servono per vivere in questo mondo extra-pancino, ti donano i loro oggetti&saperi, ti regalano ciò che manca, ti affiancano per compilare le liste e per tenere a mente il necessario, aspettano tue notizie agitati per le prime beta o per la nona visita dal ginecologo… E ti aiutano, inoltre, anche a pensare e a sorridere.
Noi siamo nati e stiamo per nascere come una nuova famiglia scelta in questo mondo difficile; abbiamo delle solitudini di base, ma anche delle reti che speriamo di tenerci strette e reciproche; non è facile, ma crediamo che si possa. Anche la nostra cittadinanza, seppur in 20, è stata comunque bella, intima, calda, politica.
Non disperiamo insomma, ma non perdiamo il focus, per tutti i Noah e per noi!