Le esperienze di vita iniziano a moltiplicarsi come i pannolini ripieni che cambiamo innumerevoli volte al dì.
La settimana scorsa, ad esempio, abbiamo vissuto un delizioso aperitivo-pranzo-postpranzo-pomeriggio nella sala d’attesa dell’ambulatorio di neonatologia di uno degli ospedali pubblici della città per una ecografia di controllo. La popolazione ospedaliera era variegata e tutta lì con un appuntamento. Arriviamo trafelati per il nostro col senso di colpa in pizzo per essere davanti alla porta dell’ambulatorio con 6 minuti di ritardo. Chiedo un po’ come funziona e subito esperisco un fittione sulla sua risposta: “Io sono l’appuntamento delle 9”. Penso immediatamente di non aver capito ed in effetti mi convinco per una buona oretta di aver sentito male, finché la seconda famigliola in attesa non esclama sardonica: “Noi siamo qui dalle 11”.
Intanto noi pranziamo con un pezzo di rosticceria; pensando di uscire troppo a ridosso dell’ora di pranzo, per di più accavallata all’inizio dell’orario di lavoro, eravamo stati protettivi coi nostri stomaci ed io avevo anche chiesto all’infermiera se fosse il caso di allattare Noah. La sua risposta non verbale, in effetti, doveva farmi cogliere subito: con la faccia dell’impotente comprensione e insieme della risolutezza che non ammette dubbi o repliche, lei fa lentamente di sì con la testa e gli occhi chiusi e aggiunge: “Sìììì, certo signora!”.
Allatto la prima volta. Dopo un altro po’, spuntano altre 2 famigliole. Ignoro la confidenza ironica con cui vengono accolte dagli altri astanti e pure frasi del tipo: “Noi intanto siamo andati a mangiare” (in effetti si eran già fatte le 13:30). Credo che la mia mente non volesse proprio capire… Intanto Noah si irrequietisce, gli cambiamo il pannolino su un carrello di metallo ricoperto da un faldone e il cucciolo eroico ci lascia fare, seppur rummuliandosi n’anticchia. Lo allatto per la seconda volta perché giustamente richiede conforto e coccoline e, mentre sono seminuda, sento dire a una della famigliole che dopo vengono loro. Mi allarmo. Sono passate le 14. “Come? Questi stronzi arrivano adesso e ora vengono loro dopo una ora e mezza di attesa? Ora ci fazzu abbiriri io!”. Osservo qualche minuto, poi chiedo – facendo un po’ la finta tonta per non essere sbranata – come mai pensano che tocchi a loro; cerco di essere il più gentile possibile, ma qualcosa passa e il pater familias di quella familias sta per aggredirmi, dicendomi che loro sono quelli delle 11e20.
Intanto l’infermiera va via e un dottore in camice verde fa entra ed esci dal reparto con il viso sempre più scosso. Un’emergenza tira l’altra quel giorno e i medici sono avviliti e visibilmente provati. Ci chiediamo di quelli dell’ambulatorio, che pare non escano mai da lì dentro. Io spero che siano sani di mente dopo ore senza pausa e senza pranzare; fantastico che facciano la pausa pranzo lì dentro, finché non mi assale un dubbio: “Ma non è che c’è solo un dottore, ed è quello che fa la spola tra reparto e ambulatorio?”. Lo dico ad Anto, sgomenta. Lui annuisce, rassegnanto. Disdiciamo i nostri impegni. Inizio a mormorare e riflettere, mi chiedo come mai siamo lì, mi rispondo che è per via dell’esenzione, unita alla buona fama del reparto; dopo un’altra buona mezz’ora senza che si muova una foglia, disdiciamo anche gli impegni presi per il tardo pomeriggio; dopo un’ennesima mezz’ora, la motivazione ad essere lì inizia a vacillare e io inizio a farmi i calcoli su quanto ho perso economicamente annullando appuntamenti già pagati e lavoro; segue la preoccupazione per il bambino da ore arrunchiato dentro l’ovetto, nonché allo stravento di un reparto spifferoso e lercio e pur sempre di ospedale = maggiori contagi.
Non vi dirò di quando ho iniziato a camminare avanti e indietro a ripetizione dopo ore seduta su una sedia dura, ma vi dirò di quando è arrivato il secondo insight: “Ma non è che, oltre a un solo dottore che fa la spola tra reparto e ambulatorio, qui c’è anche un solo ecografo che serve ovviamente sia in reparto che in ambulatorio?!?”. Intanto arriva anche la botta di angoscia poiché si susseguono emergenze e codici rossi e visi di medici sempre più malinconici.
Sono le 16:30. Siamo stanchi e umiliati. Ci chiamano, finalmente.
Il medico ha il viso distrutto. Si vede che si sforza per fare bene il suo dovere. Il nostro piccino viene visitato, poi chiediamo se ogni volta che ci recheremo lì sarà sempre così: “Sì signora, qui c’è solo un medico ecografista (io) e solo un ecografo e dobbiamo dividerci tra reparto e ambulatorio… Oggi ci sono state emergenze già a partire dalle 8 di mattina. Meglio non prendere altri impegni quando avete appuntamento qui…”.
Alla fine andiamo via intorno alle 17.
4 ore e mezzo circa di attesa.
Abbiamo pagato indirettamente quella visita ben più di quanto sarebbe costata da un privato, con in dono il sospetto di aver assaggiato la morte della speranza di un sistema sanitario pubblico curante.
Qui prodest?