Essere madre oggi – Riflessioni sparse #7

Grazie ad Abattoir-memoria-storia, posso risalire alle mie prime consapevolezze sul tempo capitalistico: era il 2017 ed io iniziavo filosoficamente a rifletterci. Mi chiedo come sarebbe stato avere un bimbo a quell’epoca in cui di cotante riflessioni non riuscivo a farmene troppo. Ci sono effettivamente voluti anni per imparare a chiedermi quanto fosse necessario lavorare davvero e fermarsi altrettanto davvero col fine di vivere dignitosamente, senza affogare nello stress e nella fretta-delle-meraviglie. Anni per chiedermelo, per capirlo e poi, infine, per praticarlo! Non credo che, prima di questo processo interno e concreto, avrei potuto essere una vera mamma. Ci sono stati infatti decenni (e fino a qualche mese fa) in cui “sono in ritardo” era la tipica frase di ogni mia mattina/giornata-di-corsa. Altro che allattamento!

Direte: ma che c’entra con la maternità la riflessione filosofico-capitalistica sul tempo? Ora il maternage lo infili ovunque? Certo, se si parla di tempo culturale, si parla di uno dei costrutti del pensiero, di un valore sovraordinato rispetto alla genitorialità… apparentemente però. Poiché poi, nel concreto, non potersi fermare non consente di concepire alcunché! Figuriamoci di incontrarsi, di innamorarsi e di far l’amore, ovvero un sesso non idraulico in grado di generare (e poi di onorare) una nuova vita. Eppure, puoi anche avere la fortuna di concepire meccanicamente, di fretta (come conigli-bianconigli) e senza metterci un pensiero. Ma poi che fai, quando ti ritrovi con un pupetto che se ne frega bellamente del tuo tempo per il filler o per la perfetta economia domestica o per la carriera e che, per lanciare questo messaggio forte e chiaro, si fa la cacca addosso e fino ai piedi mezzo secondo prima che tu esca di casa?

E’ di questi mesi la riflessione di un “giovane quarantenne” in carriera che risponde al telefono in seduta come pure durante un rapporto intimo (che sia tenero o sessuale); come tutto ciò che si pensa si possa acquistare quando si vuole, anche lui desidera un figlio, ma non sa neanche come pensarlo sul serio entro la sua vita, ove quasi quasi è gratificante interrompere qualsiasi incontro umano per coltivare il successo e lo status symbol narcisisteggiante di colui che non ha tempo extra-lavorativo.

Ed è di questa settimana la situazione di C., paziente che arriva in seduta sistematicamente in ritardo di un’ora e tre quarti, e ultimamente anche in rabbio-ansiose lacrime: “mi sto autodistruggendo”, dice… “ma DEVO fare così!”. Non c’è possibilità di scelta per C. se non al duro prezzo di fallire, di smettere di esistere entro questo tipo di mondo. A meno che lui non scelga un’altra cultura dell’esistenza che se ne frega della corsa, del denaro e del successo! “Ma DEVO fare così!”, dice.

E poi c’è il mio pupi, che invoca la sua unica divinità del momento, il Dio Tettina, ad ogni ora del giorno e della notte con molti versi da dinosauro nonostante la sua piccolissima statura. E lì che fai, se vai di corsa e non sei disponibile a fermarti?

Possiamo anche intrattenerci con esercizi-di-stile-in-parole sullo sfilacciamento delle relazioni, sul calo dei matrimoni, sulla denatalità, sull’Italia paese per vecchi e non per madre o padri, etc. Dico “esercizi di stile” in quanto si tratta spesso di pensieri sganciati da come stiamo noi stessi in un certo tipo di mondo (il nostro!) che sostiene un certo tipo di valori e un certo tipo di umano/dis-umano: l’uomo-impresa, che è anche l’uomo-bianconiglio, il cui motto è “sono in ritardo! In arciritardissimo!”
…anche se non sa per cosa.

Ecco perché oggi, sfrondata di filosofia e impregnata di latte materno e di maggiori consapevolezze, mi rimetto a riflettere sul tempo attraverso l’esperienza della maternità. L’arrivo di un neonatino, infatti, scardina tutto, scassa il fine turbo-capitalistico del tic-tac e si impone. A lui non importa se sei in ritardo per il mondo esterno! Lui impone il suo tempo e lo fa con l’allattamento a richiesta, lo fa coi suoi bisogni primari insindacabili, lo fa con la tenerezza, con l’amore, con gli strilli con cui l’umano si impone al quotidiano, se glielo concediamo… E ti porta a fare delle scelte e a orientarti su cosa è importante.

Mi chiedo se è anche per questo che oggi si parla tanto di figlicidi: possiamo ancora so-stare con questa di umanità semplice, basica, che sa scegliere e non volere tutto, che vuole solo UN cibo, il culetto pulito e il calore umano? A un neonatino, d’altronde, non frega molto del lavoro full time, né del banchetto blasonato, né del completino “il mio primo natale”, né ancora, per fortuna, dei regali o delle marche in voga o delle carrozzine con gli strass.
Grazie a lui e sintonizzandomi con lui, oggi trovo il senso dell’aver rimodulato il mio tempo, e ammetto che lo farei ancor di più, se potessi! Purtroppo, siamo parzialmente impotenti di fronte al funzionamento di questa cultura dell’esistenza in cui siamo immersi e che ci impone certi ritmi… tuttavia, abbiamo anche una quota di potere: il potere DI scegliere ciò che è necessario e ciò che non lo è, di ridimensionare ciò che non è davvero vitale e di fare del nostro meglio per coltivare il tempo e lo spazio della vita autentica e umana. E, nel caso mio e di Noah, abbiamo il potere DI trovare il tempo per restare in suo ascolto, ovvero in ascolto di ciò che è importante per sostenere la vita: il tempo per un nutrimento sobrio (solo il latte), per la cura reciproca e per le coccole. “Cosa chieder di più?”, direbbe il mio piccolo se potesse già parlare…

In fondo, il resto è sovrastruttura economico-politica con cui ci hanno in pugno. Tutto ciò che non pensiamo lo diviene. Compreso il tempo! Compresa la maternità! Perché cosa fai quando a una certa età il corpo ti dice che hai poco tempo o addirittura che non ne hai più? Non ti resta altro che farti rapinare e bummiare di ormoni dalle imprese-PMA. E tutto ritorna così al commercio

Dunque, cosa dicono di noi e del mondo in cui viviamo Noah, il “giovane quarantenne” e C.?
Sicuramente, molto, e tra le varie già menzionare, pure che davvero io non credo che sarebbe stato possibile nel 2017, a 33 anni, fermarsi per mettere al mondo con rispetto un figlio vivo e che richiede Vera Vita senza fronzoli. Questo è grave ed è un fatto politico e sociale, poiché mio figlio, come molti altri figli, avrà una mamma che a un certo punto sarà anziana mentre lui è ancora giovane… e probabilmente, come molti miei pazienti, ne soffrirà.
Tuttavia, dicevo, noi facciamo del nostro meglio: ci mettiamo un pensiero e ci fermiamo per lui, per insegnargli questo valore oggi antagonista all’attuale cultura dei bianconigli.

Non mentirò: c’è un grande lavoro dietro questo fermarsi che vi racconto. Un fermarsi che, senza girarci intorno, non prevede tempi supplementari, ma che ci vede rinunciare alle competizioni e accettare le perdite e il fallimento come inteso da questo mondo in cui viviamo; un fermarsi che, però, sostiene il vivere davvero. Per questo, oggi so che – a differenza del “giovane quarantenne” e di C. – non sarò mai ricca di denaro, ma chissene: ne vale la pena, ne sono innamoratamente certa.

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