Ci sono domande che i bambini fanno e che spalancano voragini nei cuori dei genitori, costringendoli a un’improvvisa maratona interiore per trovare risposte che siano sincere, delicate e adatte a menti che ancora vedono il mondo come un grande prato fiorito. Tra queste, una delle più impegnative è proprio quella sulla morte.
Prima, però, un flashback. La domanda più innocente, che già ci mette in difficoltà, è: “Come nascono i bambini?”. E qui, lo sappiamo, le risposte sono capolavori di creatività: dal cavolo alla cicogna, dall’ape che impollina il fiore al più mistico “si prega Dio e arriva un bambino”. Poi magari qualcuno azzarda il coraggioso “mamma e papà si abbracciano”, generando nuovi traumi nei piccoli, che per mesi si rifiutano di abbracciare chiunque per paura di rimanere incinti (o incinte).
Io ho sempre pensato che la verità sia un regalo prezioso, anche quando è scomoda o imbarazzante. Una verità detta con delicatezza è meglio di una bugia che, prima o poi, può sgretolare la fiducia. Lo so bene. A tre anni, alla domanda “Da dove viene il prosciutto?”, mi fu data una risposta sincera che mi cambiò la vita: diventai vegetariano. Da allora, la carne non è più stata per me un cibo, ma il suo rifiuto una scelta consapevole. Certo, non tutti furono d’accordo: familiari che cercavano di nascondermi carne e pesce negli ingredienti di alcuni piatti, convinti che fosse un capriccio. Risultato? Un’infanzia con una sfiducia alimentare quasi patologica.
Oggi, come genitore, cerco di evitare queste trappole. Mia figlia, che ha quattro anni, ha già notato che papà mangia cose diverse da mamma, ma non ha ancora fatto troppe domande. Assaggia a volte il mio “ragù di papà”, e le piace, anche se diverso da quello di mamma. Non voglio forzarla su temi complessi come il veganesimo: arriverà il momento.
Eppure, qualche domanda difficile è arrivata. Sfogliando vecchi album di foto, mi ha chiesto chi fossero quelle persone che non conosce. La risposta standard, già datale da qualcuno, è stata: “Sono salite in cielo”. Alla successiva domanda su come ci siano arrivate, la risposta è stata un capolavoro di surreale leggerezza: “in mongolfiera”. Da allora, nella sua immaginazione, la morte è diventata un poetico viaggio in mongolfiera verso il cielo.
Ma il tempo della mongolfiera inizia a stare stretto. A quattro anni, le domande si moltiplicano: dove va questa mongolfiera? In quanto tempo arriva? Chi la guida? L’occasione di approfondire si è presentata con la morte di un vecchio gatto che lei si aspettava di trovare a casa di una zia. Quella sera, invece di chiedere la solita favola, si è addormentata tra due ore di domande e risposte, in cui ho cercato di trovare parole che fossero sincere ma non spaventose.
Le ho detto che la vita è come una torcia elettrica. Fa luce, a volte tanta, a volte meno. Quando la batteria inizia a scaricarsi, l’intensità della luce cala gradualmente, e l’occhio si abitua al buio che arriva piano piano. Questo ci dà il tempo di prepararci, di salutare quella luce che ci ha accompagnato e guidato. È diverso quando si fulmina improvvisamente la lampadina: smette di fare luce di colpo, senza darci il tempo di abituarci, ed è allora che il buio colpisce più forte. Ma quasi sempre, per fortuna, abbiamo il tempo dei saluti. E poi, anche quando la torcia si spegne, resta la memoria della sua luce: quel che ci ha illuminato continua a vivere dentro di noi.
Parlando, abbiamo sfogliato insieme foto, raccontato storie di chi non ha mai conosciuto, ricordato chi ha visto solo per poco. Lei si è addormentata abbracciata a me, serena, dopo aver trovato forse una nuova metafora per il cielo. Per me, è stato uno di quei momenti rari e preziosi: intimo, agrodolce, un dialogo che mi ha fatto sentire più vicino a lei.
Forse, non ci sono parole perfette per spiegare la morte a un bambino. Ma il segreto, credo, sta nel non aver paura di affrontarla. Parlare, ascoltare, accompagnarli nel loro viaggio di scoperta, torcia alla mano. E chissà: magari la prossima volta sarò io a imparare qualcosa dalla sua luce.